Questo testo fa parte degli atti della giornata di studi «Attualità di Kropotkin», tenutasi il 15 marzo 1981 presso Palazzo Dugnani, Milano. Gli atti sono stati pubblicati sul numero 2/1981 di «Volontà».
La città e la campagna, ovvero Kropotkin urbanista
di Riccardo Mariani
Tra i diversi temi di cui Pëtr Kropotkin si è occupato nella sua lunga attività scientifica e politica troviamo anche, in posizione di particolare rilievo, interessi di urbanistica o meglio di studio della organizzazione delle dimore dell’uomo integrate al suo lavoro. Il fatto più rilevante di questa circostanza è che se ha senso parlare della attualità di Kropotkin questo è particolarmente vero per quanto riguarda ciò che oggi definiamo «urbanistica». Prima di inoltrarci in questa direzione, cioè attorno alle idee di Kropotkin sulla città e più in generale sulle relazioni tra questa e la produzione, tentiamo brevemente di delineare il clima culturale vigente al suo tempo nei confronti di questo tema.
Più o meno tutti siamo a conoscenza della enorme letteratura prodotta a proposito della «metropoli» agli inizi dell’Ottocento, ovvero nei giorni cruciali della nascita e del primo sviluppo della rivoluzione industriale. In quel momento infatti, non c’è «ricercatore» europeo che non si occupi di questo fenomeno straordinario, rivoluzionario, appunto. Rivoluzionario non semplicemente perché si stanno introducendo nuovi sistemi meccanici di produzione con la relativa serialità degli «oggetti» ma soprattutto perché milioni di persone fino a quel momento emarginate dalla civiltà se non dalla storia addirittura, entrano in un contesto dal quale erano rimaste escluse nell’arco di molti secoli. Praticamente nell’Ottocento diventa concreto il desiderio di milioni, e va sottolineato si tratta di milioni di individui, e anche dal punto di vista storiografico non si è abbastanza sottolineato l’importanza di questa che ancora non possiamo definire «classe» perché non ne ha i requisiti canonici, oppure possiamo farlo a condizione che non la si consideri una delle due tradizionalmente contrapposte. In altri termini, se accettiamo che esista un proletariato e una borghesia come entità contrapposte, la «nuova» classe di cui si parla sarebbe evidentemente una terza e che nel tempo diventa «proletariato», ma che per il momento ancora non ne possiede i requisiti caratteristici.
Ci si riferisce qui a quei milioni di individui che vivono in una particolare frontiera, non definita, fuori dalla città eppure non fanno parte della campagna: non sono veri agricoltori, non vivono su un podere o fondo rurale, sono talvolta salariati, briganti, banditi, mendicanti, individui insomma che vivono di espedienti (vedi il più volte descritto furto campestre, con tutta una sua letteratura), vivono insomma di ciò che la natura concede o di ciò che essi riescono a strappare alle persone. Improvvisamente questi milioni di persone trovano l’occasione per entrare nella città. Non importa come e in quali condizioni; nascono così le grandi bidonvilles ampiamente descritte. Sappiamo di città inglesi in cui nel giro di pochi anni si passa da alcune migliaia di abitanti a centinaia di migliaia, ovvero piccoli borghi che nel giro di soli dieci anni, da un censimento all’altro, quadruplicano il numero dei loro abitanti ma che non sono però ancora veri e propri cittadini.
I casi sono noti, Glasgow, etc. Il problema posto in questi casi è appunto il senso della rivoluzione che si va costituendo e sul quale sono state dette fin qui cose non completamente esatte, soprattutto perché determinate teorie, segnatamente quelle più diffuse e vincenti, hanno privilegiato determinati aspetti trascurandone completamente altri di pari e talvolta superiore importanza. II problema di fondo in questi momenti per la parte egemone della società, consiste nei tentativi di costruire un sistema culturale e di riferimenti, ovvero uno spazio per quei milioni di persone che fino a quel momento hanno vissuto sostanzialmente al di fuori di qualunque regola sociale. In altre parole, tutte queste persone che arrivano finalmente a partecipare del bene città, e anche in questo caso la dizione città è altrettanto azzardata quanto quella di classe, non siamo ancora infatti nella vera metropoli occidentale ma piuttosto in una serie di enormi agglomerati umani e non ancora urbani, queste masse portano all’interno dei confini urbani la dimensione della «barbarie» nella quale avevano vissuto fino a quel momento.
È dunque l’abitudine al furto, al sacrificio, fuori da ogni regola adottata in altri gruppi sociali, ma è anche abitudine a una sorta di pratica «democrazia» esercitata fuori da ogni schema teorico. Questi personaggi invadono lo spazio della città introducendovi tutti gli atteggiamenti e i comportamenti della loro situazione precedente, di fronte a un fenomeno di questa portata assistiamo al fiorire di una enorme letteratura che si sviluppa secondo direzioni specifiche, in ogni caso si tratta sostanzialmente di letteratura politicamente e culturalmente tendenziosa. Da un lato c’è chi comincia a esaminare il fenomeno sociale secondo una sua certa «oggettività», cioè così come questo si presenta; dall’altro si pongono gli avversari dello sviluppo industriale, per esempio, gran parte della cultura cattolica, in Italia, Spagna. Agli inizi dell’Ottocento in Italia troviamo infatti una letteratura vastissima che denuncia con tinte disastrose gli aspetti più negativi del nuovo sistema sociale e produttivo. Si parla di degenerazione della società, della fine del mondo ormai imminente, in ogni caso si costituisce una sorta di preparazione culturale affinché quegli stessi avvenimenti non abbiano a turbare la situazione italiana. Per esempio, si denuncia la rivoluzione industriale come origine di un nuovo «panteismo» che sicuramente distruggerà la religione dei padri. Questo, paradossalmente, è un tipo di argomentazione ampiamente utilizzato e, per quanto strano, sappiamo che in diversa misura Italia, Francia, Spagna, Portogallo, saranno effettivamente influenzate da questa propaganda.
Un altro genere di ricerca e quindi un altro tipo di denuncia, riguarda in particolare gli effetti propri e negativi della metropoli nei confronti dei cittadini stessi, una volta che siano diventati tali. Non ci si rende conto insomma che non è la città-metropoli che crea in sé l’individuo dissociato o addirittura «delinquente», che crea il «rivoluzionario», non ci si rende conto infine che di fatto quel tipo di immigrato giunge in città già «rivoluzionario», o più precisamente «ribelle».
I portatori di ribellismo sono valutati in particolare in due differenti modi: qualcuno che giudica la città come il luogo privilegiato per la organizzazione della rivoluzione sociale, ovvero divenendo questa il luogo fisico della concentrazione di masse si facilita la circolazione della propaganda e in specifico dell’idea rivoluzionaria. Altri giudicano tutto questo con diverso spirito; si tratta di ricercatori del tutto particolari, tra i quali si distingue Frederic Le Play, forse il primo sociologo urbano della storia contemporanea, una sorta di Balzac della letteratura e della pratica sociologica, un altro è Kropotkin. Questi e altri esaminano il comportamento della nuova società con indagini dirette e personali, non solo nel momento in cui questa si stabilisce in città, ma anche prima che questi entrino in città e dopo la loro sistemazione anche se temporanea. Praticamente questi ricercatori seguono passo passo gli individui e i gruppi considerati a partire dalla situazione primitiva, originaria, fino a che non giungono in città o nell’agglomerato industriale. Il soggetto esaminato è dunque un «rivoluzionario» potenziale poiché o ignora o non ha mai accettato le regole vigenti nel sistema istituzionale, urbano o rurale, e infatti ambedue i sistemi, per motivi vari, lo hanno sempre respinto. Che si trattasse di scelta, in alcuni casi, o di condizione nei moltissimi altri, sta di fatto che data la loro quantità e irruenza, questi, i nuovi arrivati, in effetti ribaltano una lunga serie di comportamenti, istituzioni, luoghi comuni. La posizione di «ricercatori» come il Le Play, è quella di tentare di capire come, naturalmente, ovvero senza ulteriori traumi e violenze, si possa assestare il nuovo sistema sociale.
Tutti in questo momento sono profondamente preoccupati del fenomeno che si va dilatando: il rivoluzionarismo; un fenomeno che, va sottolineato, non significa ancora un attacco sistematico e unidirezionale, ma piuttosto un ribellismo contro tutto e tutti, anche contro i propri simili di differente provenienza, quasi lotte tribali che si svolgono tanto in città o insediamenti industriali, quanto in campagna nelle parti in via di razionalizzazione. Sono lotte tra corporazioni, tra queste e i primi accenni di sindacato, tra i vecchi lavoratori e i nuovi salariati, tra tutti questi e le istituzioni o ciò che di loro resta.
Dunque gli obiettivi sono tantissimi e disparati e dalla osservazione attenta di questi gruppi sociali che si esprimono in modo decisamente «selvaggio» agli inizi, nasce una serie di indicazioni che si tradurranno poi in vere e proprie leggi, comprese quelle urbanistiche, normative tecniche, di comportamento, etc. Il sistema adottato nella ricerca e nella proposta, usa dello «spontaneismo», o comunque di un sistema che non adotta la imposizione di nuovi comportamenti, almeno nella prima fase, ma suggerisce soluzioni che qualcuno per suo conto ha già sperimentato. I due sistemi che si delineano per la gestione dei fatti sociali si contrappongono proprio a partire da qui: un sistema è quello suggerito dall’utopia, ovvero individuato da una serie di personaggi che intendono, direzionare la sorte della società secondo un disegno prefissato e che tentano quindi una pianificazione totale della umanità stessa attraverso l’applicazione di un meccanismo complesso in cui ogni aspetto è determinato, sia esso di tipo economico, culturale o morale.
Un caso esemplare per la sua particolarità e complessità, cioè non completamente negativo ma piuttosto con spunti di particolare interesse, è dato da Robert Owen, giudicato dalla sinistra stessa in termini positivi e lusinghieri. Owen organizza un diverso sistema di produzione e soprattutto un diverso sistema di gestione dei comportamenti sociali. Proprietario di una fabbrica tessile, Owen scopre che non è necessario sfruttare l’operaio fino al limite della sue possibilità per raggiungere una maggiore produttività, al contrario; egli scopre infatti che riducendo la giornata lavorativa e introducendo un trattamento più umano nella fabbrica e fuori, il rendimento è molto superiore mentre i rapporti tra lavoratori e proprietario ne risultano assai migliorati. La proposta di Owen non si limita a questo; egli scopre infatti che non soltanto le relazioni all’interno della fabbrica devono cambiare, ma anche all’esterno. Intuisce cioè che è necessario occuparsi anche del tempo libero della classe operaia adottando un opportuno sistema educativo. In altre parole, questa massa di individui, pur accomunati dal lavoro di fabbrica è per altro estremamente disomogenea all’esterno di questa, e comunque senza alcun referente comune. Si consideri poi che al «nomadismo» tradizionale cui questi individui erano abituati da tempo, si aggiunge ora un nuovo tipo di «nomadismo», determinato ora dai cicli della produzione. Avviene cioè che appena un proprietario ha completato una certa produzione, chiude temporaneamente la fabbrica o altro per vendere il suo prodotto; di conseguenza per questo motivo e altri connessi alla struttura produttiva del tempo, l’operaio continua a migrare da una zona industriale produttiva all’altra, senza mai legarsi in particolare a nessun ambiente e soprattutto senza mai raggiungere un determinato livello di specializzazione professionale.
Owen organizza dunque anche l’educazione civile degli operai che lavorano nella sua manifattura; in più distinguendosi ulteriormente dagli altri: utopisti, filantropi e mecenati o riformatori, perché in particolare non appartiene a nessuna chiesa, né impartisce una educazione religiosa ai suoi assistiti. In altri termini non è il solito riformista sociale imbevuto di settarismo religioso anche se è permeato da una forte religiosità, che si esprime nella sua grande fede nel potere della persuasione e dell’esempio. Il suo progetto investe dunque tutti gli aspetti di una società in formazione: migliora sensibilmente le condizioni all’interno della fabbrica, stabilisce precisi rapporti di lavoro per le donne e i bambini, si occupa della loro educazione e completa la sua opera con una attenzione particolare allo spazio fisico, abitativo, in cui tutto questo si svolge.
A questo punto accade un fenomeno apparentemente strano ma perfettamente comprensibile date le premesse cui abbiamo accennato: la maggior parte degli operai «fugge» da Owen poiché giudica più faticoso apprendere dalle lezioni e dedicarsi all’esercizio della danza domenicale piuttosto che vivere come tutti gli altri operai secondo i rapporti imposti dagli altri industriali. Le lezioni obbligatorie di danza in particolare pare che fossero specialmente invise a quel tipo di proletariato, ma soprattutto ciò che doveva essere insopportabile era proprio la rapidità storica con cui praticamente si chiedeva un mutamento sociale a gente che da secoli aveva perso la cognizione stessa del tempo. Questo citato è uno dei modi, e vale sottolinearlo, giudicato il migliore fra quelli sperimentati per indicare una risoluzione del problema sociale in chiave progressista.
Accanto a questo di Owen, contiamo dozzine di esperienze e tentativi, talvolta simili, altre volte completamente opposti, tutti comunque tesi alla ricerca di una soluzione al più grave problema del tempo: «civilizzare» il proprio popolo, o comunque arginare l’ondata rivoluzionaria sempre più imminente e ben diversa dalle rivoluzioni precedenti, ovvero con caratteri assolutamente sconosciuti ma valutati come ben più gravi, proprio perché imprevedibili, di quelli della pur nota rivoluzione francese.
In un modo o nell’altro, comunque, tutti questi interventi o progetti hanno in comune un elemento di fondo, tutti prefigurano una realtà futura. Che si tratti di filantropi laici o religiosi, che siano utopisti o riformatori politici, tutti indistintamente programmano un loro sistema a partire da valutazioni personali e in più assai rigide, che applicano o intendono applicare alla popolazione «urbana».
Contrariamente a questi, tanto il Le Play, quanto i successivi fino a Kropotkin appunto, partono da un presupposto radicalmente diverso. Kropotkin non si preoccupa di conoscere a priori l’uomo nuovo, ma parte da una serie di osservazioni dirette in situazioni complesse, quindi non soltanto interne alla nuova metropoli industriale, per considerare e valutare quale, tra le tante realtà esistenti, possa essere quella fattibile, «ideale» nel senso della sua applicabilità a una scala superiore.
Le indicazioni fondamentali di Kropotkin relative alla città ruotano attorno a due punti cardinali: la prima occasione gli è offerta dalla pubblicazione della serie di inchieste promosse e redatte dal governo inglese circa la situazione della classe operaia e rurale in Inghilterra. Contemporaneamente a questo Engels sta redigendo la sua Situazione della classe operaia in Inghilterra. Accade che Engels nella sua descrizione, dedicata alla classe operaia di tutto il mondo (ma in quel momento esisteva solo quella inglese), fornisce una descrizione che, sottolineando prevalentemente determinati fatti e avvenimenti, finisce con l’essere assimilata a quelle degli oppositori allo sviluppo industriale. In particolare Engels denuncia una lunga serie di atrocità prodotte dalla gestione capitalistica dell’industria, un capitalismo si badi ancora «indefinito», ovvero esso stesso in formazione e trasformazione, come si vedrà poi; per fare questo, ovvero per suscitare orrore e riprovazione nei futuri operai del mondo Engels ricorre a un espediente originale: trascrive fatti avvenuti anche quarant’anni prima, datandoli alla sua epoca. In altre parole Engels cita fatti avvenuti molti anni prima, spacciandoli per contemporanei; in più, constatando la distribuzione e divulgazione delle inchieste governative, stampate a poco prezzo a cura dello stato, si chiede che senso abbia quella operazione e domanda se davvero qualcuno pensa che con tali espedienti si possa risolvere la condizione della classe operaia. Ovvero Engels, e con lui altri contemporanei e poi molti altri in seguito, non si rendono conto dello straordinario potere della informazione, e delle trasformazioni che queste possono suscitare nel corpo della società quando siano sapientemente organizzate e direzionate, o quanto meno quando queste abbiano un preciso indirizzo.
Ebbene ciò che Engels non coglie in quel momento, e che il marxismo non affronterà per oltre un secolo, è che sulla base di quelle richieste e osservazioni, più o meno scientifiche, un intero sistema, occidentale, si va organizzando e dal punto di vista scientifico e dal punto di vista sociale, per produrre quella enorme trasformazione di civiltà che tutti possiamo oggi misurare nella sua ampiezza. In altre parole, se Karl Marx, dopo la prima metà dell’Ottocento arriva a dire: il popolo inglese è pronto per la rivoluzione, ciò che gli manca è la passione rivoluzionaria, e non studia il significato di questa «passione», ovvero né lui né i successori si preoccupano di capire che cosa può significare dal punto di vista scientifico l’esame della partecipazione del sentimento e della cultura popolare nel comportamento sociale e politico, questo comporta nei fatti, che la parte egemone della società resta arbitra indiscussa dell’opera di ristrutturazione sociale. In particolare facendo leva proprio sul potere dei sentimenti e sulla potenziale disponibilità sociale della nuova classe operaia. Naturalmente la città, lo spazio urbano in generale, sono il luogo privilegiato in cui si esercita l’opera di trasformazione sociale proprio attraverso l’attivazione di una lunga serie di accorgimenti, attività particolari, coinvolgimenti di vario tipo, età, ovvero casette individuali, giardini pubblici, spazi sociali...
La parte perdente in quel momento, per intenderci quella del Kropotkin, agisce su un piano completamente diverso, ma, vale ripeterlo, è assolutamente perdente. Rispondendo alla questione delle abitazioni di Engels, dove questi ipotizza una risoluzione del problema abitativo con l’esproprio, di fronte a una domanda di milioni di alloggi, Kropotkin osserva che non sarà mai possibile con pochi alloggi liberi rispondere a una domanda così consistente, in più il problema più importante, e non secondario, che deve essere risolto è quello della gestione della città.
Su questa posizione si apre un divario incolmabile per oltre un secolo, con le altre componenti dei vari movimenti, sindacali, operai, rivoluzionari, intellettuali, etc. In altri termini i marxisti in particolare, rifiutano il tema della «gestione» della città in tutte le sue componenti, rimandandolo al giorno della rivoluzione. A rivoluzione avvenuta si vedrà ciò che è più conveniente. Per il momento la città non rappresenta altro che una grande occasione rivoluzionaria, quasi un dato oggettivo e determinato. Kropotkin sostiene esattamente il contrario, è necessario a suo avviso essere coinvolti nella gestione della città, e addirittura propone un sistema specifico. Infatti, di fronte ai primi accenni governativi di organizzazione dell’amministrazione urbanistica e sociale della città, Kropotkin sostiene che non dovrà essere una commissione urbanistica o edilizia, composta financo da sessanta persone che potrà e dovrà amministrare lo spazio urbano, ma si dovrà arrivare a una gestione della città a partire dalle sue componenti minime e però fondamentali, cioè strada per strada, quartiere per quartiere. Siamo dunque all’introduzione del concetto di «comitato di quartiere», come si direbbe oggi, ma ancor più specifico, perché si parla di strada, ovvero di luoghi di produzione, come usava a quel tempo. Ecco un primo e sostanziale riferimento alla «attualità» di Kropotkin: l’autogestione nella città e per la città.
Questo non va considerato semplicemente come l’indicazione di un atto politico-amministrativo, è necessario sottolineare come questa grande indicazione comporti un impianto culturale, una scelta di fondo, radicalmente diversa da quella che invece sarà vincente nei paesi in cui il marxismo si affermerà, come in Italia, per esempio, dove da una parte si nega che il «giocare» con lo spazio urbano sia di qualche importanza, mentre dall’altra gli si attribuisce una grande importanza riferita esclusivamente al suo potere di concentrazione demografica e quindi politica. Insomma la città è intesa come il luogo fisico del grande comizio.
Il risultato finale è che in Inghilterra, primo campo di sperimentazione di queste teorie contrapposte, la rivoluzione non ci fu mai e non certamente per la sola gestione urbanistica delle città, in gran parte anche perché la città venne organizzata in modo tale da ridividere ciò che la città stessa aveva unificato. In altre parole si usarono leggi urbanistiche, procedimenti e criteri di sviluppo per creare spazi separati, differenziati, insomma per provocare separazioni e concorrenze all’interno di una massa che doveva la sua forza e consistenza fondamentale alla sua compattezza e alla «omogeneità».
Quando anche il socialismo italiano, sul finire dell’Ottocento, affronterà il tema della casa ai lavoratori e più genericamente della città, cadrà necessariamente in una serie di gravi banalità culturali e politiche oltre che, nella pratica, assumere in proprio quelle medesime esperienze adottate precedentemente in altri paesi, come in Inghilterra appunto, introducendo così una tematica reazionaria attraverso l’ignara bocca e azione del movimento operaio. In altri termini il socialismo anziché elaborare un proprio «modello» e una propria «strategia» per la città, userà degli stessi procedimenti e soluzioni che la borghesia nord-europea aveva elaborato contro il socialismo stesso.
Il secondo punto su cui si ferma l’attenzione di Kropotkin riguarda la organizzazione sociale del nuovo spazio urbano. A questo proposito le indicazioni che ci lascia sono ancor oggi inesplorate nella loro interezza, sia dal punto di vista pratico che teorico. Quando Kropotkin risponde alla domanda su come potremmo organizzare la società, per quali insiemi e tramite quali sistemi, si esprime in modo particolarmente chiaro e sintetico, lasciando anche a noi un ampio spazio per completare la risposta stessa. L’indicazione è, ovviamente in linea col suo pensiero anarchico, tutta rivolta allo spirito della comunità. Ma dire comunità può anche significare poco o produrre genericità. Che cosa significa comunità? Mille persone, diecimila, un milione? Ovvero, è una questione di quantità, o d’altro? Esiste una dimensione prefissata, come negli utopisti, con regole chiuse e strutture rigide? Comunità è un concetto, una idea; non è una dimensione, cioè non ha una configurazione urbanistica non può trasformarsi direttamente in un predeterminato prodotto tecnico. E Kropotkin specifica; intende per «comunità», ovvero per proposta comunitaria e quindi «organizzazione» dello spazio, ciò che egli trova già esistente nella società costituita. In altre parole non crea un modello più o meno utopico da applicare alle cose e alle persone, ma indica tra i modelli già esistenti ciò che al meglio è in grado di fornire delle indicazioni per una vita sociale non gestita secondo schemi autoritari o gerarchici. L’indicazione fornita gli viene dalla osservazione di certi villaggi-comunità della Russia, da altre comunità che incontra durante le sue esplorazioni di geografo e da esperienze di cooperazione svoltesi anche nel passato. L’esempio più noto in questo senso, per completezza, strutturazione, etc. riguarda alcuni villaggi di ex servi della gleba, uomini rifugiati nella steppa a seguito di persecuzioni e che sono quindi obbligati a inventare un modo per sopravvivere insieme. E così si vede la rotazione delle cariche tecniche e politiche, la gestione della proprietà pubblica, la ripartizione dei prodotti, le relazioni interne al gruppo sociale, l’istruzione, la circolazione della cultura, etc. Oggi la dimensione di questi villaggi potrebbe essere quella del kibbutz.
Ma c’è evidentemente un tema non trascurabile; qui siamo all’interno di indicazioni positive riferite a uno dei modi possibili, soprattutto c’è alla base una scelta di fondo, o almeno così appare; la campagna. È altrettanto possibile immaginare qualcosa di simile in un ambiente più industriale, dove non si tratti semplicemente di trasformare i prodotti dei campi? Per rispondere Kropotkin analizza dozzine di casi urbani e industriali. Più in particolare si occupa di tutta quella grande parte di produzione industriale che viene realizzata, anche per grandi entità di lavoro, ma non concentrate in un medesimo stabilimento. Si tratta del «lavoro a domicilio», o comunque di lavoro che non si svolge in unici luoghi pur essendo espletato da migliaia di persone. I casi che cita sono innumerevoli e in ogni paese d’Europa, dalla produzione dei merletti in Normandia, ai coltelli di Sheffield e nelle centinaia di casi simili. È dunque la «scoperta» di ciò che oggi noi chiamiamo economia sommersa o forme economiche alternative alla concentrazione industriale per grandi complessi e monopoli. A questo proposito Kropotkin sì sofferma nel descrivere situazioni cui ha realmente assistito, per esempio in Svizzera, durante certe crisi produttive e di mercato, quindi sindacali, quando gli operai orologiai tentano una gestione in proprio della produzione, introducendo anche variazioni tecniche e comunque di gestione della lavorazione stessa. Solo qualche anno fa. in Francia, si è presentato nuovamente un caso molto seguito dalla opinione pubblica, si trattava ancora di orologi di una fabbrica, la LIP, e di un tentativo di autogoverno assai complesso, dalla ricerca di mercato alle variazioni delle condizioni di lavoro, dentro e fuori della fabbrica, etc. Dall’intero sistema di indicazioni dunque, emerge un quadro sufficientemente delineato perché si possa intendere l’idea generale del «piano» urbanistico di Kropotkin laddove la caratteristica emergente sta proprio nel non-piano, ma piuttosto nei criteri, nell’alternativa effettuale a quel sistema che pur riconosciuto come eternamente «in crisi» viene continuamene proposto e riproposto in infinite varianti che sostanzialmente ripropongono il medesimo principio.